Ore 18.30, siamo al fondo della baia. Tutto è andato per il meglio. Ultima difficoltà, un po’ abbagliati dalle luci del piccolo paese, trovare un buon punto in cui dare fondo. Non ci sono i soliti riferimenti, ovvero altre barche già all’ancora. Il nostro portolano aveva ragione: siamo l’unica barca da diporto che va all’ormeggio nella rada. Ci rendiamo conto di avere di fronte una grossa spiaggia di sabbia, il fondale si riduce con gradualità rassicurante, finché, con un fondo di 5 metri diamo ancora.
“Chi ha tempo, non perda tempo!” dice un vecchio detto. Ce l’eravamo un po’ dimenticati, ma questa esperienza ce lo ha riportato alla memoria.
Domani destinazione Ile Madame de la Rose, passaggio ancora più difficile, ma il nostro portolano ci racconta di una spiaggia bianchissima troppo invitante per non andare a vedere.
Questa volta però, anche se le miglia da percorrere sono poche, la partenza sarà di buon mattino, e allora tutti a nanna, ci attende una notte tranquilla!
19 gennaio – Ile Madame de la Rose
Come ci aveva promesso il nostro portolano troviamo una spiaggia bianchissima. L’isola si presenta come se fossimo all’interno di un piccolo atollo. Siamo l’unica barca che ha dato fondo davanti a questo stupendo paesaggio. Chissà se è lo stesso paesaggio che Colombo incontrò durante il suo ultimo viaggio, il quarto, verso i Caraibi?
L’ultimo viaggio di Cristoforo Colombo
15 giugno1503 - Colombo scopre la Martinica, l'isola a sud della Dominica, la prima terra avvistata nel secondo viaggio del 1493. Colombo è partito da Cadice l’ 11 maggio 1502 per il suo ultimo viaggio con quattro caravelle.
Con lui sono partiti anche il fratello Bartolomeo e il figlio tredicenne Ferdinando, che in seguito stenderà la cronaca del viaggio.
La flotta, dopo alcune settimane di sosta, prosegue attraverso il Mar Caraibico trovando, a un certo punto la strada bloccata dal continente centro-americano.
Lasciato il suo primo approdo nell'Honduras Colombo veleggia lentamente verso sud alla ricerca di un passaggio lungo le coste del Nicaragua e della Costarica fino a Panama, lottando costantemente contro venti, correnti contrarie e tempeste. Le condizioni atmosferiche sono tra le peggiori che Colombo avesse mai incontrato.
6 dicembre 1502. Colombo così descrive la tempesta in cui è incappato: "Il vento non solo ci impediva di avanzare, ma non ci permetteva neanche di ritornare indietro per metterci al riparo di una qualsiasi protezione naturale; per cui fummo costretti a rimanere in questo furioso oceano, che ribolliva come un calderone su un gran fuoco. Il cielo non aveva mai avuto un aspetto più terribile: per un giorno e una notte interi divampò come una fornace, emettendo fulmini di tale violenza che ogni volta mi domandavo se non avrebbero strappato via l'alberatura e le vele; i lampi si succedevano con tale furia e intensità che tutti temevamo che le navi sarebbero saltate in aria. Per tutto il tempo l'acqua non cessò mai di venire giù a rovesci; non parlo di pioggia, perché sembrava un altro diluvio universale. Gli uomini erano cosi sfiniti da desiderare che la morte ponesse termine alle loro sofferenze orribili".
E Fernando aggiunge: “Con tutto quel calore e quell'umidità, le gallette erano cosi piene di vermi che - Iddio mi aiuti - vidi molti marinai che mangiavano la zuppa di gallette solo al buio per non vedere i vermi, mentre altri erano ormai cosi abituati a mangiarli che non si davano nemmeno la pena di tirarli fuori, perché avrebbero finito per non mangiare più niente se si fossero mostrati cosi schizzinosi.”
Nonostante tutte le difficoltà, Colombo continua a esplorare fiumi e baie nell'ottimistica speranza che uno di essi possa essere lo stretto che cerca da tempo. Quando raggiunge la zona di Panama, apprende da un interprete indiano che quella zona esiste un istmo tra due oceani, ma che non vi è una via d'acqua tra quei due mari.
Gli Indiani lungo tutta la costa hanno ornamenti d'oro in abbondanza ed allora Colombo, in base alle loro indicazioni, dirige verso la regione che gli è stata indicata.
Gennaio 1503 Colombo ancora la flotta nel Rio Belén, con l'intenzione di lasciare lì una caravella e relativo equipaggio, con il compito di estrarre un carico del prezioso minerale. Ma gli Indiani Guaimi, che abitano nella zona, sono di altro avviso e dopo una serie di aspri scontri, Colombo decide di rinunciare al progetto.
Aprile 1503 Colombo abbandona il territorio e anche una caravella che si è arenata a ridosso di un banco di sabbia. La notizia che gli uomini arrivati d’oltre mare sono aggressivi e feroci si è sparsa presso tutte le tribù indiane della costa e delle isole e l’accoglienza riservata ai nuovi arrivati è ormai sempre ostile.
Poco dopo, un altro nemico, meno violento ma altrettanto pericoloso - le brume - distrugge un'altra caravella. Moltiplicandosi rapidissimamente alle temperature tropi- cali, questi piccoli organismi attaccano ben presto anche le altre due caravelle.
Giugno 1503. Le navi giungono in Giamaica con sei pompe che lavoravano giorno e notte per mantenere a galla gli scafi ormai marciti. Le navi non più in grado di arrivare fino a Hispaniola, sono fatte arenare in una baia riparata, e Colombo invia due volontari, Diego Mendez e Bartolomeo Fieschi, in canoa attraverso il mare aperto a cercare aiuto a Santo Domingo.
I mesi passavano e nessuna vela appare all'orizzonte, mentre gli uomini, prigionieri sulle loro navi ormai inservibili, aspettavano senza poter far nulla. Colombo è costretto a letto dall' artrite. Gennaio 1504, l'atmosfera claustrofobica di bordo diviene esplosiva. Metà dell’equipaggio da corso ad un ammutinamento e abbandona le navi per tentare di raggiungere Hispaniola in canoa, ma il mare agitato li respinge al punto di partenza.
29 giugno 1504. Dopo un intero anno trascorso in attesa sulle spiagge della Giamaica arriva finalmente la nave di soccorso. Colombo si è ormai riappacificato con gli ammutinati e tutti, con grande sollievo, ripartono per Hispaniola: la durissima prova del quarto viaggio di Colombo è terminata.
Il lungo periodo, un anno, intercorso tra la richiesta di soccorso e l’arrivo della nave è la spiacevole testimonianza del discredito in cui Colombo è ormai caduto. Un anno per percorrere la modica distanza di 300 miglia che separa le due isole e che una caravella, con il favore del vento, può percorrere in poco più di due giorni.
Il suo ultimo viaggio termina ingloriosamente ed in modo umiliante: la stagione del grande Ammiraglio del Mare Oceano è purtroppo finita!
20 gennaio – Da pescatori a pescati
Vento al traverso di 15 nodi …….. 2 nodi di velocità!?
Vero che c’è molta onda che contrasta l’avanzamento, ma 2 nodi di velocità mi sembrano proprio pochi. Metto a segno per bene le vele e la velocità aumenta a 3 nodi. Non sono convinto, in queste condizioni dovremmo fare almeno 5-6 nodi di velocità. Rimetto a segno le vele, ma la situazione non cambia. Impossibile, c’è qualcosa che non mi quadra! Chiedo a Michele se ci capisce qualcosa. Anche lui riprova a mettere a segno le vele, ma la velocità non cambia: 3 nodi. Poi l’occhio ci cade a poppa e …….. sorpresa!
Stiamo trainando una lunghissima cima con attaccate diverse bottiglie vuote alla cui fine supponiamo sia agganciata o una rete o una nassa per le aragoste. E pensare che eravamo attentissimi. Non capisco come sia successo, ma …. inutile recriminare. Michele tenta di arrivare alla cima con il mezzo marinaio, ma è molto affondata e non ci si arriva. ”Proviamo con l’ancora” dico io. “Con l’ancora?” chiede stupito Michele. “Già,” dico io, “caliamo l’ancora di rispetto che sta a poppa, agganciamo la cima, aliamo e poi tagliamo”. Michele non è molto convinto perché gli sembra di utilizzare un bazooka per sparare ad un insetto. Ma io insisto, non vedo altre soluzioni. Fortuna vuole che, rovistando nel gavone di poppa, prima di arrivare all’ancora di rispetto, trovi un ancorotto più maneggevole utilizzato per il tender. Al terzo lancio l’ancorotto intercetta la cima, grande sforzo di Michele per portarla a pelo d’acqua, giù la scaletta di discesa a mare e …. zac, con un colpo di coltello il gioco è fatto!
Niente affatto!
La cima che, agganciata dal timone, aveva assunto una forma ad U, perde un lato, ma l’altro alto non si sgancia. Non resta che scendere in acqua per capire ciò che ancora blocca la cima restante. Barca alla cappa. Per un eventuale recupero di emergenza: parabordo in acqua a poppa tenuto con una cima di una ventina di metri. Pinne, maschera, coltello ….. salto in acqua per vedere cosa si può fare. La piccola boa di galleggiamento, a cui era attaccata l’intera struttura, si è incastrata con la cima restante tra lo skeg e il timone. Cerco di raggiungerla, ma il problema è che malgrado la barca sia alla cappa è comunque più veloce di quanto riesca ad esserlo io a colpi di pinna. Allora mi afferro alla cima che trascina il parabordo di sicurezza e, tirandomi su di essa, finisco automaticamente sotto la linea di galleggiamento all’altezza del timone. Per due volte afferro il gavitello cercando di disincastrarlo. Impossibile! Ci vorrebbe una forza ben maggiore di quella che io riesco ad esercitare. Che fare? Qual è il problema?
Il problema è che non ci siano cime pendenti che si possono incastrare nell’elica quando dovremo dare motore. Rinuncio a disincastrare il gavitello e sul lato opposto del timone taglio a filo il pezzo di cima che ancora ci trasciniamo. Il gavitello resta incastrato al suo posto, ma non è una minaccia per la nostra elica. Penso: lo rimuoveremo una volta ormeggiati!
Sbagliato!
Facciamo qualche centinaio di metri ed ecco che il gavitello si libera da solo e riprende a galleggiare sornione come ci dicesse: “Visto? Malgrado tutti i vostri sforzi, sono io che decido dove, come e quando liberare la vostra barca!” Non apprezziamo! Non siamo in vena di battute. Io ho ancora il fiatone per lo sforzo fatto!
Vento al traverso ancora di 15 nodi …….. ma questa volta facciamo più di 6 nodi ! Finalmente!
“Tutti all’erta!” dico io “repetita NON iuvant”. Sei occhi scrutano il mare intorno senza accorgersi che, mentre noi ci riposavamo dalla fatica dell’incaglio, avevamo già preso la cima di un’altra rete nel timone. Ormai sapete già l’iter: barca alla cappa, gavitello di sicurezza e, anche se repetita NON iuvant, ci tocca ripetere la stessa manovra di prima. L’unica differenza è che mettiamo a frutto l’esperienza fatta e ci divincoliamo più rapidamente!
A questo punto due considerazioni su questa costa sopra vento della Martinica veramente molto bella :
- Abbiamo percorso sopra vento quasi 60 miglia senza incontrare UNA, ripeto UNA barca a vela. Ne consegue che il portolano dei Caraibi, peraltro molto ben fatto, merita una correzione. La dove recita “Quasi tutti i diportisti si concentrano sulla costa sottovento della Martinica ……” deve essere corretto in “TUTTI i diportisti si concentrano sulla costa sottovento della Martinica ……”
- Seconda correzione proposta. La dove recita: “ non è così semplice raggiungere la costa sopra vento ……. è necessario affrontare nuovamente l’onda atlantica, imboccare dei passaggi difficili in cui bisogna saper tener a bada l’apprensione! ” A nostro avviso il problema non sono i reef, i passaggi difficili e l’apprensione di andare a scogli. Il vero problema, credetemi, è che i pescatori, probabilmente rassicurati dal fatto che non passa mai nessuno, calano reti e nasse con segnalazioni minimali, pressoché inesistenti, ben diverse da quelle che abbiamo trovato sulla costa sotto vento! Sopra vento la navigazione diventa pertanto un continuo slalom tra bottiglie di plastica spesso a pelo d’acqua e quindi pressoché invisibili e quando questo slalom lo devi fare in vicinanza di banchi di corallo ti genera, questo si, un po’ di apprensione!
Confermiamo però: la costa sopra vento della Martinica è più bella di quella sotto vento!
28 gennaio 2011 – Un rientro imprevisto
Sono insorti alcuni problemi personali ed ho dovuto riprendere l’aereo per Milano. Niente di grave, ma per un paio di mesi temo dovrò rimettere i panni del cittadino.
22 febbraio
Quattro cittadini americani rapiti da pirati somali al largo della Somalia sono stati uccisi. Lo ha reso noto la Cnn, che ha citato fonti del Pentagono. I quattro velisti a bordo dello yacht "Quest" erano seguiti da un paio di giorni da una nave della marina militare americana che, secondo una prima ricostruzione, è intervenuta dopo aver sentito degli spari a bordo. La Cnn ha riferito che nell'intervento sono morti anche alcuni dei rapitori, e che 15 pirati sono stati tratti in arresto. Le vittime sono i proprietari dell'imbarcazione, i coniugi Jean e Scott Adam, che avevano cominciato un giro del mondo nel dicembre del 2004, e due amici invitati a bordo per la traversata, Phyllys Mackay e Rob Riggle. L'imbarcazione, la S/V Quest, era stata sequestrata a 240 miglia nautiche dalla costa dell'Oman e i pirati si erano diretti successivamente con i loro ostaggi verso la Somalia.
Mi ritornano alle mente antiche definizioni:
- Il pirata era un ladro, un predone del mare, che agiva di propria iniziativa contro tutte le navi che riusciva ad intercettare.
- Il corsaro, invece, praticava la così detta “guerra di corsa”, da cui appunto discende il suo nome, in genere autorizzata da un sovrano e solo contro specifiche navi che gli venivano indicate nella "lettera di corsa e rappresaglia". Famosi furono i corsari inglesi (sir) Francis Drake ed Henry Morgan che, sul finire del XVII secolo, assaltavano i porti spagnoli nelle Americhe e attaccavano i galeoni carichi di oro ed argento diretti verso la Spagna.
Il corsaro della regina
In un giorno del 1573 un giovane uomo di mare si trovava sulla cima di una collina, nell' istmo di Panama. Il giovane, arrampicatosi su un albero, fu il primo inglese ad ammirare il più grande degli Oceani: il Pacifico. Era Francis Drake, colui che passerà alla storia come “il pirata della regina”. Cinque anni prima, nel 1568, Drake si trovava nei Caraibi su una nave della flotta comandata da suo cugino John Hawkins e danneggiata da una furiosa tempesta. Hawkins aveva trovato riparo nel porto messicano di San Juan de Ulua, vicino all'attuale Vera Cruz. Gli spagnoli, di stretta osservanza cattolica, consideravano gli Inglesi degli eretici ed avevano concesso l’accesso di mala voglia. La flotta era da poco alla fonda nel porto, quando il nuovo viceré del Messico, da poco arrivato, ordinò un attacco contro le malconce navi di Hawkins. Tre velieri furono catturati e tutti gli Inglesi a bordo degli stessi furono uccisi. Drake e Hawkins riuscirono a salvarsi con pochi superstiti sulle due navi rimaste sotto il loro controllo.
Da quel momento Francis Drake, animato da un insanabile spirito di vendetta, divenne il peggior nemico degli spagnoli. La regina Elisabetta, non ancora sufficientemente forte per poter esporsi ad uno scontro frontale con la Spagna, sfruttò il suo desiderio di vendetta avvallando brevi incursioni, a scopo di saccheggio, contro le navi spagnole. Drake diventò in breve il terrore delle navi spagnole.
Nel novembre 1577 una flotta di cinque navi da guerra era pronta a salpare dal porto di Plymouth. La nave ammiraglia di Drake era la Pelican, le altre navi erano l'Elizabeth, la Swan, la Marigold e la Christopher.
La regina Elisabetta, si era a tal punto rafforzata, da poter sfidare la Spagna, dominatrice dei mari, ed autorizzare ufficialmente la spedizione delle cinque navi di Drake nel Pacifico per stabilire scambi commerciali, annettere nuovi territori e ricercare un misterioso continente di cui tanto si parlava: la terra Australis. A Drake non era stato richiesto di dar battaglia alle navi spagnole, ma la regina, che ben conosceva l’odio di Drake per gli spagnoli, era certa che l’investimento fatto per armare le cinque navi, sarebbe ampiamente stato ripagato dal bottino che certamente Drake avrebbe fatto attaccando le navi spagnole nel Pacifico.